SAN GIOVANNI DA CAPESTRANO; SAN LUDOVICO DI TOLOSA; SAN BONAVENTURA

Ambito/Autore : Ambito lombardo

Periodo storico: 17° secolo
Anno: 1649
Soggetto: San Giovanni da Capestrano; San Ludovico di Tolosa; San Bonaventura
Luogo di conservazione: Borgo Valsugana, chiesa di San Francesco d’Assisi, coretto; Cles, chiesa di Sant’Antonio da Padova, presbiterio
Materia e tecnica: olio su tela, cm 208 x 116; cm 141 x 116; cm 210 x 123,5
Provenienza: Borgo Valsugana, chiesa di San Francesco d’Assisi, ante 1773

Descrizione:

I tre dipinti vengono qui per la prima volta riuniti ed editi. In origine si trovavano tutti nella chiesa di San Francesco a Borgo e costituivano una serie coerente per tema, completata da un anonimo San Francesco d’Assisi, opera di più modesta qualità artistica ma frutto della stessa committenza.

Angelo Molinari (1926) vide nel coro della chiesa di Borgo San Ludovico da Tolosa e San Bernardino da Siena (con il quale spesso è stato confuso San Giovanni da Capestrano) ma è probabile che la collocazione originaria fosse la cappella di Sant’Antonio da Padova, voluta nel 1647 dagli stessi committenti di cui a breve si precisa l’identità.

Per motivi non chiari entro il 1773 San Bonaventura venne tradotto nel convento di Cles; il 14 aprile di quell’anno lo vide il Tovazzi rubricandone con la consueta precisione l’iscrizione.

Rasmo lo ammise all’esposizione del 1962 giudicandolo “magnifico quadro” di un valente ma ignoto artista; analogo giudizio è stato espresso da Chini (1980) alla vigilia del restauro operato nel 1982-1983 da Serafino e Ferruccio Volpin. I due quadroni rimasti a Borgo Valsugana non hanno ricevuto pari attenzioni critiche, complice il pessimo stato di conservazione al quale ha posto rimedio il recente restauro di Marta Albertini (2012-2014). La tela con San Ludovico da Tolosa è stata in tempo imprecisato radicalmente decurtata di oltre sessanta centimetri, ma il nesso con gli altri esemplari è esplicitato dallo stile e dal ricorrere degli acronimi e degli stemmi dei committenti. Costoro vanno individuati nel barone Marco Sigismondo Francesco Welsperg e nella consorte, la contessa Judith Helene Wolkenstein Rodenegg (sulla quale si veda Bonazza 2009, p. 263). Gli acronimi vengono ora agevolmente sciolti grazie anche al ritratto della nobildonna conservato nella collezione del conte Georg Siegmund Thun-Hohenstein-Welsperg di Monguelfo (Toffol 2001, p. 27) che svela il primo nome della Wolkenstein: “M.[ARCUS] S.[IGISMUNDUS] F.[RANCISCUS] B.[ARO] A. W.[ELSPERG] E.[T] P.[RIMÖR]”// “I.[ UDITH] H.[ELENA] C.[OMITISSA] A. W.[OLKENSTEIN] E.[T] R.[ODENEGG]”.

Grazie a Girolamo Bertondelli (1665, p. 22) e alla cronaca di Marco Morizzo (I, p. 198) sappiamo che il 10 febbraio 1647 il dinasta Marco Sigismondo Welsperg ricevette dai frati la concessione per l’edificazione della cappella destra della chiesa, da intitolare a Sant’Antonio da Padova. È significativo che solo due anni dopo il nobile facesse dono dei dipinti in parola, ostentando la propria munificenza e quella della moglie. Desta invece una certa sorpresa che la pala dell’altare fosse stata commissionata ad un pittore assai modesto intercettato sul posto, mentre la terna con i santi francescani spetta ad un artista di notevoli capacità e di palese cultura lombarda. Un rimarchevole unicum nella Valsugana del Seicento, tanto da supporre che il ricorso ad un artefice così distante dalle frequentazioni dei Welsperg possa essere stato mediato dalla consorte Wolkenstein. In assenza di riscontri documentari, è in ogni caso d’obbligo muoversi deducendo dai dipinti stessi le coordinate culturali.

Nella regia ‘drammatica’ della luce, con i bagliori ad effetto sui drappeggi serici e sui pastorali ingemmati, i potenti riverberi rossastri delle mitrie o i riflessi sui piviali di raso, si impone un gusto fieramente lombardo. L’erosione della forma e la sostanza cerea del volto di San Ludovico ci trasmettono la lunga eco della stagione borromaica milanese, riuscendo ad evocare un tardivo interprete di quel momento come Ercole Procaccini il Giovane (1605-1680) che ancora a metà secolo indugiava sui fondamenti della cultura ambrosiana del primo ventennio del secolo; si veda a confronto (fig.) il Martirio di Santo Stefano in San Lorenzo a Lugano (Pittura a Como, p. 202, fig. 122; p. 329: F. Bianchi). Certo nei nostri dipinti tutto ciò si fa più spiccatamente decorativo e meno cupo, a tratti alquanto esteriore, tanto che i simboli della rinuncia del potere e della ricchezza da parte degli esempi del francescanesimo finiscono in realtà per prevalere e imporsi come fastosa e teatrale messinscena. Ma resta notevolissimo l’accento claustrale di San Giovanni da Capestrano, l’inflessione patetica di San Ludovico da Tolosa e ancora la rifulgente auctoritas di San Bonaventura.

L’autore di questi brani figurativi, di cui giustamente Rasmo colse i meriti artistici, costituisce un esempio di lombarda consapevolezza con ben pochi paragoni in Trentino, al di qua delle opere di Andrea Pozzo. Una robustezza dell’immagine che nessuno degli epigoni di Pietro Ricchi, costantemente tentati dalla manierata fragilità ottica della figura, seppe o volle esprimere. L’unico pittore documentato in Trentino a mostrare parziali affinità con l’ignoto maestro attivo per i coniugi Welsperg-Wolkenstein fu Carlo Pozzi, artista di origini milanesi o meglio comasche ma di più ravvicinata provenienza bresciana (per un profilo si veda La pittura in Italia, il Seicento, II, pp. 850-851: E. Mich). Egli ostenta nelle opere migliori alcuni tratti comuni, come nella pala dell’altare maggiore di Calceranica, senza tuttavia raggiungere la maturità delle tele francescane. L’impressione è piuttosto che il Pozzi avesse attinto alle prove dell’ignoto maestro rabberciando in maniera più o meno lodevole spunti e modelli che con il tempo si fanno sempre più deboli. Anche Ezio Chini, con il quale mi sono confrontato e che ringrazio, è incline a scartare il nome di Pozzi, pur avvertendone parziali affinità.

Ne conviene una diversa soluzione per ora difficilmente precisabile poiché non ci sono note altre opere di questo artista, per lo meno nel contesto locale, che non è possibile provare a identificare neppure sulla base delle presenze lombarde del Seicento a Trento.

Fonti: ACPFM, busta 244, Inventario 1959, p. 656, n. 22; busta 244, Inventario 1966, p. 642, n. 11; SBC Menapace 1980/ OA/ 00027071-27072; SBC Chini 1981/ OA/ 00034590; ACSA, Inventario 2013, p. 7.

Bibliografia: Tovazzi [1780], p. 435, n. 704; Molinari 1926, p. 305; Esposizione di pittura sacra, n. 7; Chini 1980, p. 340; Stenico 2001a, p. 380; Stenico 2004c, pp. 286, 295; Fabris 2009-2011, I, p. 62.