MONUMENTO FUNEBRE DI SIGISMONDO WELSPERG

Ambito/Autore : Simone Carneri junior (?) (Trento, 1565-notizie fino al 1598)

Periodo storico: 17° secolo
Anno: 1607 ca.
Soggetto: Monumento funebre di Sigismondo Welsperg
Luogo di conservazione: Borgo Valsugana, convento di San Francesco d’Assisi, chiostrino
Materia e tecnica: pietra calcarea intagliata, scolpita, niellata; marmo mischio; pietra di paragone, cm. 460 x 230
L’imponente monumento funebre celebra il barone Sigismondo Welsperg, il dinasta di Castel Telvana morto a Borgo Valsugana il 28 maggio 1613, all’età di 63 anni.

Descrizione:

Sigismondo aveva preparato fin dal 1607 per sé e la propria discendenza la sepoltura all’interno della chiesa, dinanzi all’altare maggiore. Il sigillo tombale, ancora all’interno del tempio, onora la memoria del nobile Welsperg quale “Ecclesiae et Cenobii fondator”. Anche il vistoso monumento funebre venne scolpito prima della morte del barone – lo precisa l’iscrizione “vivens sibi/ ac posteris inauguravit” –, verosimilmente nello stesso 1607. Si trovava addossato sulla parete destra del presbiterio, come precisamente indicato dal Tovazzi, finché nel 1841, dovendo i frati aprire una porta, venne rimosso e addossato alla parete destra del convento; nel 1893 fu infine collocato sotto la finestra della loggia, nel chiostrino (Stenico), sottraendolo definitivamente alla vista di chi frequenta la chiesa.

La struttura, a edicola, è sollevata da robuste zampe ferine unghiate ed è inquadrata da lesene arricchite da formelle marmoree contrastanti per colore, concluse da capitelli ionizzanti. L’architrave a fusarole è sormontata da fregio a cuscino e cornice dentellata. Infine è la cimasa a volute affrontate, decorate da motivi a foglia d’acanto, includenti un globo crociato.

La figura del barone in armatura aggetta notevolmente in altorilievo ed è siglata, in basso, dal cartoccio con iscrizione. Poggiata la mano destra sulla lancia, egli esibisce un grande scudo con l’arme avita e quella della consorte Clara Altemps. A terra sono poggiati i guanti metallici e l’elmo cimato da vistoso pennacchio. La lenticolare ma fredda descrizione dell’armatura, dalle borchie, alle superfici in acciaio damaschinato, al mascherone sullo scudo, contrasta con la sommaria definizione plastica della figura, acuendone l’immobilità. Il viso frontale e inerte è incorniciato da barba e baffi regolarmente forbiti; gli occhi sono spalancati ma lo sguardo è fisso nel vuoto, assente, quasi a voler assecondare il bisogno di immortalità dell’effigiato.

Se da un lato la volitiva imposizione del personaggio a figura intera, negli esibiti connotati esteriori della propria dignità sociale, ammette l’adeguamento ai canoni dello state portrait, esperibile anche in monumenti di area veneta – mi pare esemplare la prossimità con il monumento a Bartolomeo Orsino d’Alviano in Santo Stefano a Venezia, opera di Girolamo Paliari – dall’altro si impone quel tipico tratto neofeudale che caratterizza la cultura figurativa in età post rinascimentale, tanto più in giurisdizioni dell’Impero di cui sono investite casate di ceppo tedesco come quella dei Welsperg. A ben vedere, le intenzioni del dinasta di castel Telvana lasciano trasparire, nel forte accento arcaizzante, una certa suggestione per modelli più antichi, di retaggio tardogotico, come il monumento di Giorgio Pichler nella pieve di Pergine (1523): la severità ricercata è proprio quella di un cavaliere nella sua pesante armatura, con la lancia che è il perno di tutta la figura e lo spadone che ostenta un’analoga aquila bicipite come simbolo di fedeltà feudale all’Imperatore.

Sia le caratteristiche architettoniche che scultoree del monumento Welsperg rimandano a modelli in auge entro i confini del principato vescovile, quali vennero declinati da una grande bottega egemone in età madruzziana, quella fondata poco dopo la metà del XVI secolo da Giandomenico Carneri (si veda in proposito Bacchi, Giacomelli 2003, pp. 87-105; Siracusano 2009). L’impaginato architettonico del monumento trova un precedente illustre, con le debite mutazioni imposte dal diverso contesto celebrativo e dal cinquantennio intercorso, nel monumento funebre di Bernardo Clesio nel duomo di Trento (si veda Il Duomo di Trento, II, pp. 111-113: M. Lupo). Da questa struttura, riferita all’atelier Carneri (Cattoi, Sava 2004, p. 12), deriva in particolare l’idea di rialzare il monumento su robuste zampe leonine, così come l’innesto assai sgrammaticato dei capitelli ionizzanti caricati da ovoli, oltre la partitura decorativa delle cornici e l’incerta articolazione della trabeazione, con ipertrofico fregio a cuscino e frontone dentellato.

La lapide sepolcrale di Girolamo Guarienti nell’arcipretale di Civezzano, eseguita da Giandomenico dopo il 1561 (Siracusano 2009, pp. 94-95), è un fondamentale riferimento per la soluzione figurativa globale e i canoni imposti all’impettito ritratto a figura intera del Guarienti in armatura. Abbondano dunque gli indizi di carattere compositivo e stilistico per collegare il monumento all’operatività della bottega Carneri, gestita, alla morte del capostipite Giandomenico (1588), dai figli Paolo e Simone.

Sembra tuttavia possibile spingerci oltre, al fine di individuare in maniera più circoscritta la paternità di questa che non è certo opera di routine, bensì una delle realizzazioni più rilevanti. Di fatto il trattamento calligrafico della barba, dei capelli, ma anche del cimiero dell’elmo, così come l’anodina inespressività del volto dagli occhi sbarrati, nonché la rigidità anatomica, richiamano in modo inequivocabile un’impresa documentata al solo Simone. Mi riferisco alle statue dell’imponente tabernacolo all’altare maggiore della pieve di Brentonico, compiute nell’ultimo decennio del Cinquecento (Scultura in Trentino, II, p. 117: L. Leonardi). È vero che allo stato attuale delle ricerche l’attività di questo artefice non oltrepassa il 1598, giusto il millesimo apposto al complesso scultoreo appena citato, ma nulla impedisce di pensare che Simone lavorasse ben oltre quella data, indotti anche dalla maggior maturità plastica attestata dalle opere del fratello Paolo Carneri, a partire dal monumento Wolkenstein (1588-1606) in San Pietro a Trento (Bacchi, Giacomelli 2003, pp.97-99). Dopotutto meno di un decennio si interpone tra la conclusione del complesso di Brentonico e il monumento Welsperg ed è utile rammentare come Sigismondo si fosse premurato a farsi ritrarre per tempo nella pietra, forse anche qualche anno prima del 1607, il terminus ante quem posto dalla lastra terragna. L’indicazione di paternità è condivisa da Luciana Giacomelli – che ringrazio per il proficuo confronto – la quale, nella conferenza del 8 agosto 2015 (Ancora sui Carneri: una scultura cinquecentesca dal castello di Caldes, atti in corso di stampa), ha presentato un’opera inedita di questo scultore.

Fonti: Tovazzi, Relatio Prima, p. 42; Morizzo, I, p. 108; ACPFM, Inventario 1966, p. 646, n. 31; SBC Menapace 1980/ OA/ 00027055.

Bibliografia: Tovazzi [1780], n. 1; Gerola, Zippel 1918, p. 22; Stenico 2001a, pp. 139-140, 377; Fabris 2004, pp. 50-51; Fabris 2009-2011, I, p. 61.