GESÙ BAMBINO IN GLORIA CON DIO PADRE, LA COLOMBA DELLO SPIRITO SANTO E ANGIOLETTI

Ambito/Autore : Nicolò Ricciolini (Roma, 1687-1772)

Periodo storico: 18° secolo
Anno: 1730-1740 ca.
Soggetto: Gesù Bambino in gloria con Dio Padre, la Colomba dello Spirito Santo e angioletti
Luogo di conservazione: Cles, chiesa di Sant’Antonio da Padova, presbiterio
Materia e tecnica: olio su tela, cm 216 x 160,5

Descrizione:

Il dipinto si trova nella chiesa francescana almeno dal 1780, quando venne descritto da Francesco Bartoli nel novero di alcune tele di cultura romana: “l’altro quadro col Bambino in gloria e il Padre Eterno etc. è di Placido Costanzi”. Restano ignoti i presupposti dell’indicazione di paternità formulata dal bolognese che, per i motivi di seguito addotti, non è accettabile. D’altro canto la discussione delle tele qui riconosciute a Luigi Vanvitelli (catt. 174-175) pone in luce come Bartoli disponesse soltanto di informazioni piuttosto generiche ed elementi di giudizio parziali, soprattutto a motivo della decontestualizzazione di questo interessante gruppo di quadri capitolini, giunti in Trentino a distanza di decenni dalla loro esecuzione. La vicenda critica è decisamente scarna: dopo la menzione di Simone Weber che dà l’opera per dispersa, Ezio Chini ne tratta contestualmente al restauro operato nel 1982 (Serafino e Ferruccio Volpin), lasciando aperta la questione intorno al pronunciamento di Bartoli. Nel 1959 la tela è registrata nel chiostro meridionale e ad essa si riferisce una perentoria missiva del soprintendente Nicolò Rasmo nel 23 luglio 1962 volta a far riportare in chiesa questo ed altri antichi dipinti inopportunamente spostati (ACPFM, XI G 5, Cronaca 1961-1962). La tela è stata riposizionata nella collocazione antica dopo l’intervento conservativo. Il dipinto svolge in chiave decorativa, squisitamente settecentesca, i presupposti della grande scenografia barocca romana: l’illusionismo seicentesco, vitalissimo e immaginifico viene per così dire pianificato in misura assai meno ambiziosa ma aggraziata e risolto in una visione rigidamente frontale. In alto Dio Padre e la colomba, a richiamare la Trinità; otto angioletti circondano la figura trionfante di Gesù Bambino, quello più in basso prepara e lascia cadere ghirlande di rose, metafora della grazia divina. Un obiettivo studio critico dell’opera induce a cogliere talune assonanze con lavori di Placido Costanzi nell’impianto compositivo e nelle forme dilatate, un po’ piatte e bloccate nello spazio. Tralasciando le opere a fresco, affinità si possono ad esempio registrare con alcuni dipinti su tela resi noti nel 1991 da Giancarlo Sestieri, segnatamente con le sagome di spalla degli angioletti in Sant’Antonio resuscita un bambino o, meglio ancora, con la figura del Redentore bambino nel bozzetto San Giuseppe intercede per le anime purganti (Sestieri 1991, figg. 87-88). Ma non sono in alcun modo ravvisabili elementi sufficienti per assegnare l’opera a questo maestro, mancandovi quel caratteristico intento di nobilitare il rococò sulla scorta di Raffello e Domenichino; non si coglie alcun riflesso del gusto sottilmente bilanciato in forme gentili e aggraziate tipico di Costanzi e neppure la sua notevole disinvoltura scenografica, desunta da Sebastiano Conca ma fortemente controllata in senso classico (Clark 1968; si veda inoltre Sestieri 1994, I, pp. 65-66). La conduzione delle figure è in qualche modo più prosaica e immediata, le campiture di colore meno compatte (per quanto ciò vada imputato anche allo stato conservativo non buono fino al restauro, come osserva Chini). Notevole, ma in ogni caso difforme dai modi del Costanzi, è la sensibilità che sovrintende ai passaggi cromatici dei nembi incessantemente sfumati tra il rosa ramato, il grigiazzurro, il giallo oro, il grigio perla. I chiaroscuri di cui sono imbevute le membra degli angioletti e le stesse nubi ripensano in maniera diversa la lezione del Trevisani, al quale inizialmente lo stesso Costanzi guardò, come attesta il suo biografo Nicolò Pio. Ma più di tutto appare in aperto contrasto con Placido lo spessore emotivo degli angioletti corrucciati, toccati da evidenti accentuazioni fisionomiche quanto mai lontane dall’armonioso equilibrio di quel maestro. Un tratto, questo, che si profila del tutto rivelatore, poiché nella Roma del Settecento un approccio così intrinsecamente anticlassico, volto a restituire spessore realistico ed espressivo alle figure, risponde solo al nome di Nicolò Ricciolini. Figlio d’arte, egli apprese nella bottega del padre Michelangelo non solo i rudimenti della pittura, ma le coordinate fondamentali di un codice espressivo decisamente allineato con il capostipite. Pur arricchendo il proprio percorso nell’orbita di Francesco Trevisani, del quale sposò una nipote, Nicolò mantenne fede all’indirizzo paterno, ad una pittura robusta, dalla mimica esasperata e i contrasti accentuati (Si rimanda in proposito a Guerrieri Borsoi 1988, p. 161; Casale 1992, pp. 172, 174-175; Sestieri 1994, I, pp. 157-159). L’umore delle sue prove discende fondamentalmente dal ciclo di ventisei tele dedicate a San Lorenzo, dipinte da Michelangelo nel 1699 in San Lorenzo al Borgo, oggi presso il Calasantianum (Casale 1992, pp. 172-173, 183-187). La critica ha peraltro rilevato come l’attività tarda di Michelangelo debba essere stata condotta in maniera congiunta con il figlio, come prova la decorazione in Santa Maria in Vivario a Frascati, condotta a quattro mani ma fortemente omogenea negli esiti. E in definitiva i tratti caratteristici dell’opera pervenuta a Cles rimarcano considerevoli assonanze anche con l’espressione artistica di Michelangelo, a partire dalle tele di tema laurenziano. Tuttavia non mancano addentellati con i dipinti eseguiti da Nicolò negli anni venti del Settecento per la basilica di San Pietro – a breve argomentati –, quindi nella prima maturità dell’artista: ciò che pare ribadire una verosimile datazione del Gesù Bambino in gloria nello stesso decennio. È evidente che l’attribuzione a Ricciolini, così agevolmente sostenibile grazie ai dati di natura stilistica, ridimensiona considerevolmente la validità della testimonianza di Bartoli in favore del Costanzi. La paternità acquista inoltre una particolare profondità di contesto alla luce dello stretto rapporto umano e professionale tra il pittore romano e Luigi Vanvitelli, autore delle superbe pale parimenti provenienti dall’Urbe (catt. 174-175, cui si rimanda anche per le circostanze storiche dell’acquisizione). Il primo contatto tra i due artisti dovrebbe risalire al momento in cui entrambi vennero ingaggiati per eseguire alcune copie di dipinti della basilica vaticana in vista della loro traduzione in mosaico. Tra il 1718 e il 1720 Nicolò replicò, nello specifico, Cristo salva San Pietro dalle acque (la Navicella) del Lanfranco, opera condotta poco dopo ad Urbino con tutte le altre del gruppo per iniziativa del cardinale Annibale Albani, prefetto della Fabbrica di San Pietro (Guerrieri Borsoi 1989, pp. 32-33, 35). Allo stesso prelato si deve la decorazione della chiesa di Santa Maria degli Angeli a Roma con opere vaticane: le tele raffiguranti i doni dello Spirito Santo approntate da Nicolò per i mosaici della cappella della Madonna della Colonna (1730-1734) – i bozzetti del Timor di Dio (fig.) e Fortezza sono recentemente passati sul mercato antiquario (Petrucci 2014, pp. 21-22) – e prima ancora la Crocifissione di San Pietro, eseguita dallo stesso artista nel 1728-1729 (Guerrieri Borsoi 1988, pp. 162-265). Vanvitelli, che venne coinvolto negli stessi anni nel cantiere di San Pietro anche come architetto, seppur in subordine, poté contare proprio sulla committenza Albani agli albori del suo percorso di pittore e architetto. Oltre ai disegni per l’edizione delle Commedie di Terenzio e alle ricordate opere pittoriche in San Pietro (in buona parte disperse), realizzati sotto gli auspici del cardinale prefetto Annibale Albani, a costui e al fratello Alessandro dovette i primi incarichi nella progettazione: disegni di interni e di mobilio e l’ammodernamento del palazzo avito ad Urbino (Giannetti 1998, pp. 9-12). Si aggiunga che il Ricciolini fu nella commissione del concorso per la facciata di San Giovanni in Laterano (1732) al quale Luigi concorse accedendo contemporaneamente all’Accademia di San Luca quando ne era principe il Conca e segretario l’amico Nicolò. Il legame tra i due artisti non venne meno dopo il trasferimento di Vanvitelli a Napoli. La fitta sequenza di lettere intercorse attesta che Nicolò, trovandosi negli anni cinquanta provato dalla malattia e dall’indigenza, ricorse all’amico per poter lavorare a Caserta. Ogni sforzo di Luigi risultò tuttavia vano di fronte al fermo rifiuto della regina Maria Amalia, alla quale lo stile di Ricciolini non piaceva affatto (Strazzullo 1976, in particolare I, n. 132, 260, 346, 392, 394, 405, 420; II, n. 431, 444). Tutto ciò coopera a definire il contesto nel quale le tele romane di entrambi i pittori romani videro la luce, probabilmente in maniera congiunta. Benché manchino sufficienti elementi storico-documentari per individuare la provenienza e la committenza dell’impresa, non pare affatto azzardato ipotizzare il coinvolgimento del potente cardinale Albani o di una personalità in pari misura legata a momenti e cantieri che hanno visto affiancati Ricciolini e Vanvitelli.

Fonti: ACPFM, busta 244, Inventario 1959, p. 657, n. 36; SBC Chini 1981/ OA/ 00034542; ACSA, Inventario 2013, p. 7.

Bibliografia: Bartoli 1780, p. 94; Weber 1977, p. 108; Chini 1982, pp. 247, 253; Stenico 2004c, pp. 286, 289, 295.