ARCANGELO RAFFAELE E TOBIOLO

Ambito/Autore : Ambito tirolese (?)

Periodo storico: 18° secolo
Anno: 1725-1750
Soggetto: Arcangelo Raffaele e Tobiolo
Luogo di conservazione: Trento, Fondazione Biblioteca San Bernardino
Materia e tecnica: olio su tela, cm 77 x 98

Descrizione:

È merito di Nicolò Rasmo aver colto la qualità del dipinto, ricondotto ad ambito veneziano nella scheda di Soprintendenza.

Benché necessiti di una pulitura, questa tela, dall’accento brioso e dalla tavolozza crepitante, si colloca tra i più interessanti brani figurativi della quadreria di San Bernardino. Le dimensioni e il formato indirizzano all’ambito del collezionismo privato ed è molto probabile, nonostante la carenza di informazioni, che costituisca un dono al convento tridentino di cui non è purtroppo rimasta memoria ma che potrebbe con tutta verosimiglianza discendere da una importante collezione patrizia. Il soggetto testimonia l’accentuata empatia nutrita nel Settecento per il tema dell’Angelo custode che trae la propria origine da Tobiolo soccorso dall’arcangelo Raffaele, il soggetto qui attentamente narrato nel momento in cui l’Arcangelo ordina al piccolo Tobia di trarre il fiele medicamentoso dal pesce. La brillante conduzione del tema sacro, scopertamente rococò, è allietata dal profondo paesaggio di quinta e dal gustoso dettaglio del diffidente e indispettito cagnolino dal collare rosso.

Lo straordinario paesaggio, con i repentini rialzi di tonalità nell’ambrato controluce del tramonto, è condotto a pennellate piuttosto liquide ma vibranti, denotando una notevole confidenza con la pittura di genere che trova nelle fronde bronzee dell’albero la chiosa espressiva più sensibile, in piena sintonia con i bagliori sulle vaporose e increspate vesti dell’arcangelo Raffaele. L’elegante e aggraziata conduzione formale di questa figura denota una chiara prossimità culturale con l’ambiente veneziano della prima metà del Settecento, tra Sebastiano Ricci e Francesco Fontebasso. Tuttavia i modelli lagunari e le tipiche accensioni materiche sui tessuti leggeri e gonfi color giallo, arancio, verde pistacchio, si accompagnano a un piglio più mosso, enfatico e ad una diversa e caricata individuazione somatica che potrebbe anche evocare, per riflesso, il nome di Mattia Bortoloni. Le aspre involuzioni di questo artista, che stravolse le istanze del proprio discepolato presso Balestra con gli accenti umorali di Federico Bencovich, costituiscono però solo fino ad un certo punto il motivo per comprendere l’essenza del dipinto trentino. Di fatto nessun pittore di stretta osservanza lagunare esprime un simile linguaggio e nelle volute forzature espressive è piuttosto corretto individuare un retroterra culturale tirolese. Il ductus inquieto e fratto del paesaggio non manca anzitutto di individuare interessanti affinità con l’opera di Johann Georg Grasmair (1691-1751), significativo è senz’altro il confronto con due paesaggi, firmati e datati 1739, in collezione privata tirolese (Johann Georg Grasmair, pp. 40, 42-43, 148, catt. 42-43: J. Kronbichler). Ciononostante le prove figurative di questo artista sono altra cosa, mancando del tutto qualsiasi stimolo veneziano. Un più significativo apporto alla decodificazione culturale dell’ignoto artista sovviene dall’ambiente fiemmese sulla metà del XVIII secolo. Se infatti poniamo mente ad alcune delle più vivaci e autonome espressioni pittoriche di Francesco Sebaldo Unterperger riusciamo a trovare non forme coincidenti, bensì il segnale chiaro di taluni caratteri condivisi. Nel Noli me tangere di Tagusen (1750) o nel Congedo di Cristo dalla madre del Museo diocesano di Bressanone (1757) ritroviamo molto della crepitante vegetazione della tela francescana (si veda Francesco Unterpergerpittore, pp. 221, 225, tavv. 44, 61), mentre non si potrà negare che l’audace inflessione espressiva dei personaggi, ovvero il tratto per nulla lagunare del dipinto, ha in sé una compiuta matrice sudtirolese o forse meglio fiemmese: indicativo in particolare il confronto tra il volto di Tobiolo e i confratelli nella porzione inferiore della Presentazione al tempio di Francesco Sebaldo a Pieve di Bono (1740: Francesco Unterperger, p. 220, tav. 37). Ciò non significa che sussistano solidi elementi per riferire l’enigmatico dipinto ad Unterperger poiché anche nei migliori momenti inventivi e nelle più convinte adesioni alla pittura veneziana, da Ricci, a Grassi e Pittoni (si veda Mich 2004-2005, p. 272), il fiemmese concepisce in modo più energico e meno raffinato la sveltezza del dipingere, sviluppando premesse che già insistevano, negli anni trenta, nelle vivacissime tele nel convento delle clarisse a Bressanone. Lasciando doverosamente aperto il confronto critico, si fa estremamente stimolante l’indagine intorno all’artista di talento autore di questo notevolissimo dipinto che si profila come uno dei più alti raggiungimenti della cultura rococò a Trento, fruttodi un intreccio ad elevatissimo livello di cultura veneta e tirolese.

Fonti: ACPFM, busta 275, Inventario 1963, p. 667, n. 4; SBC Dal Bosco 2001/ OA/ 00072249.

Bibliografia: Esposizione di pittura sacra, n. 12; Guadagnini 1994, p. 30; Stenico 1999, pp. 147, 598.