ULTIMA CENA

Ambito/Autore : Giovanni Francesco Furlanello (Cavalese, 1649-1697)

Periodo storico: 17° secolo
Anno: 1675-1700
Soggetto: Ultima Cena
Luogo di conservazione: Cavalese, convento di San Vigilio, refettorio
Materia e tecnica: olio su tela, cm 170 x 400
Provenienza

Descrizione:

La poco chiara vicenda storica di questa grande tela è stata capillarmente ripercorsa e discussa da padre Ciro Andreatta. Benché la tradizionale assegnazione a Furlanello non sia da porre in discussione ed appaia anzi pienamente legittimata dal punto di vista stilistico, restano inconciliabili la natura e l’entità dimensionale della tela rispetto alle prescrizioni testamentarie del pittore, intimo dei francescani di Cavalese. Dall’estratto testamentario del 1697, si evince che le benemerenze del pittore verso il convento contemplavano anche il dono di tre dipinti: la Madonna dell’aiuto ancora conservata in convento (cat. 124), un disperso quadro “delli 14 Auxiliatori” e un dipinto talvolta identificato a torto con quello nel refettorio, ossia il “Cenacolo di S. Gregorio Papa”. Come osserva Andreatta, una tipica tela da refettorio di quattro metri di larghezza mal si concilia con un’opera custodita dall’artista e questa osservazione, congiunta alle incongruità tematiche con il cenacolo in oggetto, porta ad escludere il nesso con il testamento dell’artista. Cionondimeno le coordinate stilistiche sono quelle tipiche del fiemmese, il cui catalogo è stato recentemente ridiscusso e ampliato (Mich 2009). Potrebbe dunque essere veritiera la tradizione asserita da un discendente della famiglia Riccabona, secondo la quale il committente dell’imponente tela sarebbe Giangasparo Riccabona (1631-1699), facoltoso benefattore dei Minori, una soluzione che accoglie una circostanza innegabile: un dipinto di tal fatta necessitava di un donatore.

Ciò sarebbe fra l’altro in sintonia con la consapevolezza dell’Ordine proprietario, ovvero con l’alta considerazione in cui fu tenuta l’opera già nell’inventario al tempo della Soppressione, quando venne valutata l’ingente cifra di 25 fiorini (Andreatta).

Già nel 1926 Angelo Molinari definiva il dipinto “assai deperito perché oscuro e bituminoso” prima del restauro del 1949, ma ancora oggi lo stato conservativo non è dei migliori a causa di una spessa vernice che ostacola la percezione dei corretti valori cromatici e chiaroscurali.

Nonostante queste alterazioni, si coglie nel grande dipinto la volontà di accentuare i contrasti di luce, tanto che nel baluginare delle figure sul fondo nerastro pare di poter intuire la conoscenza della pittura dei tenebrosi veneziani, in particolare di Johann Carl Loth. Fra le non molte opere note del fiemmese, è forse questa la più alta e libera, quella che ostenta maggior sicurezza e piglio interpretativo.

Fonti: Morizzo, II, p. 333; ACPFM, busta 304, Inventario 1927, n. 45; busta 244, Inventario 1960, p. 649, n. 9; Giacomelli 1987/ OA/ 00053968.

Bibliografia: Rasmo 1914, p. 5; Molinari 1926, p. 300; Felicetti 1933, p. 53; Rasmo 1982, p. 314; Onorati 1982, p. 71; Andreatta 1990, pp. 220-222; Giacomuzzi 2005, p. 129; Felicetti 2007; Mich 2009, p. 371.