MONUMENTO FUNEBRE DI ANTONIO DE FATIS

Ambito/Autore : Antonio Rizzo (?)

Periodo storico: 15° secolo
Anno
Soggetto: Monumento funebre di Antonio de Fatis
Luogo di conservazione: Trento, chiesa di San Bernardino, coretto
Materia e tecnica: pietra ammonitica rossa intagliata, cm 225 x 105 (lastra sepolcrale); 66 x 180 (fronte)
Provenienza: Trento, San Bernardino vecchio, 1694

Descrizione:

Il monumento fu eretto nella chiesa di San Bernardino alle Ghiaie non lontano dalla cappella del Santo Sepolcro, come attesta nel 1673 Michelangelo Mariani: “qui vicino sta nobil Deposito di Antonio Fati Terlago, Giuriconsulto Insigne, detto Padre della Patria, come fa fede il marmo”. Trasportata nel 1694 dalla chiesa originaria al nuovo San Bernardino, precisamente nell’oratorio vicino alla sacrestia, nel 1871 l’arca venne smembrata per l’ingombro eccessivo. Lo scrive Morizzo il quale precisa che “si internarono nel muro il coperchio della stessa e il davanzale [fronte] della medesima”. Nella sciagurata operazione, dopo la quale i marmi risultano pesantemente umiliati, andarono perduti i fianchi del sarcofago, la base, le lesene e le membrature che connettevano le lastre dell’arca al coperchio inclinato con l’effigie del defunto. L’entità degli elementi perduti è accertata dal notevole scarto tra la lunghezza del coperchio e quella del fronte dell’arca. Un’idea piuttosto attendibile dell’assetto originario la offre il monumento di Calepino Calepini nel duomo di Trento (1485) al quale il sepolcro del de Fatis è stato costantemente associato (Rasmo, Collareta, Giacomelli).

La solenne sepoltura di Antonio de Fatis introduce per la prima volta a Trento una tipologia tipicamente italiana, vieta alla cultura nordica e desunta dalle tombe di giuristi e professori dell’università di Bologna (Collareta). Il “Giuriconsulto Insigne” riposa nel sonno eterno, accompagnato da cinque vistosi volumi che emergono dal lenzuolo funebre quali poderosi castoni dell’effigie supina. L’obiettivo è quello di glorificare la sua immagine di uomo di dottrina giuridica e il bisogno di eternità come concetto squisitamente umanistico è ribadito dai genietti sul fronte. Costoro reggono gli scudi araldici con gli stemmi Tabarelli (scudo d’argento caricato da un levriero ritto di nero collarinato) e de Fatis Terlago (bipartito di rosso, caricato da mezz’aquila d’argento), quasi meditando sull’epigrafe laudativa e sull’impegnativo epiteto di “Pater Patriæ” attribuito al defunto. Dottore in legge, uno dei membri più illustri della società tridentina nell’età di Johannes Hinderbach, Antonio ricoprì nel 1474 il ruolo di console della città di Trento. Egli va più di ogni altra cosa considerato come emblematico rappresentante di quella classe ottimatizia volta a corroborare il ruolo delle magistrature civiche, determinata a rafforzare la propria immagine nella militanza elitaria all’interno di aggregazioni confraternali (Battuti o Ca’ di Dio, Fradaglia Nuova di Santa Maria della misericordia) che furono in sintesi il principale sostegno della fondazione francescana del 1452 (si veda su questo punto il saggio di chi scrive). I frati de familia non dovettero manifestare dunque alcuna ritrosia perché gli eredi erigessero nella loro chiesa l’arca funeraria che è una delle più precoci e compiute attestazioni della scultura rinascimentale a Trento.

Le stringenti affinità e la persistenza dei medesimi presupposti tra quest’opera e il monumento di Calepino Calepini poc’anzi citato (1485) indussero Nicolò Rasmo a prospettare l’intervento della stessa bottega di cultura veneta. Nonostante il comune indirizzo, Marco Collareta propose per primo l’appartenenza delle due opere a scultori distinti nell’orbita di Pietro Lombardo.

Uno studio approfondito delle due arche è stato affrontato nel 2007 da Luciana Giacomelli alla quale dobbiamo circostanziate indicazioni di paternità intese a porre sotto nomi diversi i monumenti Fatis e Calepini. Gli scarti stilistici sono esperibili non solo nelle figure – maggior tensione e sintesi si coglie nell’arca del Tabarelli – ma anche nella più asciutta sintassi decorativa, in particolare nella cornice a girali che inquadra la figura del defunto. La studiosa argomenta una serie di confronti con l’attività di uno scultore di primo piano nella Venezia del secondo Quattrocento, Antonio Rizzo. Indubbiamente i due genietti reggi stemma che dominano la lastra frontale del sarcofago si prestano a favorevole riscontro con i grandi paggi e con i putti scolpiti da Rizzo nel monumento al doge Nicolò Tron ai Frari (1476-1480). La cronologia del monumento sarebbe compatibile con la presenza di Antonio in Veneto, prima della sua partenza alla volta della Turchia nel 1478-1479. Luciana Giacomelli, che propone con prudenza l’attribuzione qui accolta con la stessa cautela, discute altresì l’evenienza della commissione a Trento o al più nella natale Verona alla luce della pietra impiegata, l’ammonitico calcareo rosso di estrazione locale.

Fonti: Tovazzi, Relatio Prima, p. 22; Morizzo, I, p. 30; ACPFM, busta 275, Inventario 1963, p. 667, n. 13; SBC Dal Bosco 2001/ OA/ 00072210.

Bibliografia: Mariani 1673, p. 136; Tovazzi [1780], p. 343, n. 484; Castelli-Terlago 1962, pp. 3-4; Rasmo 1982, p. 202; Collareta 1993, pp. 73-75; Il Duomo di Trento, II, p. 101, cat. 7 (M. Lupo); Stenico 1999, pp. 569-571; Giacomelli 2002, p. 844; Giacomelli 2004, p.